Trenta anni fa: il Pinatubo
A partire dal 15 marzo del 1991, i residenti dei villaggi alle falde del vulcano cominciarono ad avvertire alcuni terremoti, senza peraltro notare variazioni nel tenore delle fumarole di una vicina area geotermica. Il numero e l’intensità dei terremoti aumentarono improvvisamente il 2 aprile, quando avvenne anche un’esplosione freatica, alle 4 del pomeriggio. Il 4 aprile, Suor Emma Fondevilla riferì all’Istituto Filippino di Sismologia e Vulcanologia (PHIVOLCS) la notizia di questo evento e di un forte odore di zolfo. Un volo di emergenza sul vulcano confermò che le esplosioni avevano creato un allineamento di punti di emissione di vapore sul lato nord della montagna.
Il 5 aprile fu installata la prima stazione sismica ad una distanza di circa 7 km ad Ovest-Nord-Ovest dalla cima. La stazione registrava su carta e l’analisi dei sismogrammi veniva effettuata al cambio del rullo di carta alle 6 del mattino di ogni giorno. L’analisi preliminare mostrava l’accadimento di numerosi terremoti VT (vulcano-tettonici, così si definiscono quei terremoti che avvengono in un’area vulcanica, ma che hanno caratteristiche del tutto simili a quelli che si verificano in altre zone del pianeta e che sono interpretati come conseguenza della fratturazione di porzioni di roccia). Questo è un fenomeno abbastanza comune quando avviene il risveglio di un vulcano quiescente.
Nei giorni successivi furono installate altre quattro stazioni sismiche per ottenere una localizzazione dei terremoti. Con le strumentazioni allora disponibili al PHIVOLC, i dati dovevano essere recuperati ogni giorno ed inviati a Manila per la loro analisi. Un ulteriore problema era la distribuzione geografica delle stazioni, sbilanciata sul fianco Ovest del vulcano, che non consentiva una precisa localizzazione degli eventi.
Alla fine di aprile, nel quadro di un accordo di cooperazione fra il PHIVOLC e il Servizio Geologico degli Stati Uniti (USGS), furono installate sette stazioni sismiche che comunicavano in radio-trasmissione i dati ad un centro di raccolta localizzato in una base aerea americana, distante 29 chilometri dal vulcano. L’acquisizione dei dati era effettuata con un PC che permetteva una rapida elaborazione per ottenere la localizzazione e la stima delle magnitudo. Ciò che adesso sembra un processo di routine nell’elaborazione dei dati, a quel tempo rappresentava una rete sismica con tecnologia d’avanguardia, che sfruttava l’esperienza maturata dall’USGS nel corso della crisi del Mt St Helens fra il 1980 e il 1986.
Fino al 31 maggio, i dati mostravano una serie di eventi VT localizzati a circa 5 km a Nord-Ovest del vulcano, a una profondità compresa fra i tre e i sette km. Occasionalmente, si registravano sporadici episodi di tremore vulcanico (una vibrazione del suolo con frequenze comprese fra 1 e 8 Hz, indicativa della presenza di fluidi vulcanici).
Alcuni episodi più vigorosi di tremore furono osservati il 26 e 27 maggio in occasione di piccole esplosioni. Insieme a questi eventi sismici furono notati dei terremoti di Lungo Periodo (LP) con frequenze fra 1 e 2 Hz, tipiche di fasi di degassamento del magma. Questi eventi erano localizzati a bassa profondità, ma un’analisi più accurata, condotta dopo l’eruzione, rivelò che alcuni erano avvenuti a una profondità maggiore.
Un’analisi dei gas emessi dalle fumarole mostrava inoltre un rapido aumento, fino alla fine di maggio, dell’emissione di biossido di zolfo (SO2) che raggiunse un valore dell’ordine delle 5000 tonnellate al giorno, quantità tipica di un vulcano attivo.
Inizio dell’attività eruttiva
Fra l’1 e il 7 giugno aumentò la frequenza dei terremoti, oltre a frequenza e intensità degli episodi di tremore che accompagnavano piccole esplosioni al cratere sommitale. Anche i terremoti VT si localizzarono in un cluster sotto il vulcano, ad una profondità fra 1 e 5 km.
L’attività sismica (VT) ebbe un aumento drammatico fra il 6 e 7 giugno quando, alle 16.30 subì una drastica diminuzione. Solo l’8 giugno, in un volo di ricognizione sul vulcano si notava l’estrusione di un piccolo duomo di lava al cratere sommitale (un duomo di lava è formato da lava ad elevata viscosità che non ha la capacità di scorrere).
Una relativa quiescenza sismica seguì questa fase, interrotta il giorno 9, quando episodici sciami di eventi LP e ibridi (eventi VT con una coda LP) cominciarono ad essere osservati, fino al 12 giugno, in coincidenza, prima di una piccola esplosione registrata alle 03.10 del 12, e poi un’eruzione esplosiva violenta, alle 08.51.
La colonna eruttiva raggiunse i 18 chilometri d’altezza e durò per circa 45 minuti. Altre tre eruzioni di minore durata si ripeterono la notte del 12, e ancora il 13 e il 14 alle 13.09. Tutte ebbero una colonna verticale di altezza superiore a venti chilometri. Durante questa fase la sismicità si intensificò, con eventi LP. A partire dall’evento delle 13.09 del 14 giugno, aumentò il numero di eventi VT e LP, accompagnati da una successione di 15 eruzioni, con una significativa differenza rispetto alle quattro precedenti: i nuovi eventi erano accompagnati dalla generazione di flussi piroclastici.
Alle 13.42 del 15 un tremore, con elevata ampiezza, cominciò a saturare tutte le stazioni sismiche intorno al vulcano e dalle 14.30 tutte le stazioni, tranne quella alla Clark Air Base, erano fuori uso. Era l’inizio della fase parossistica dell’eruzione: una colonna eruttiva alta 34 chilometri si espandeva nella stratosfera, fino ad avere un diametro di quattrocento chilometri. A partire dalle 15.39 si avvertì una serie di violenti terremoti, con magnitudo compresa fra 4.3 e 5.7, possibile segnale di un collasso della camera magmatica e conseguente formazione di una caldera superficiale. Con buona parte delle stazioni di rilevamento fuori uso, solo il segnale barografico indicò il termine dell’eruzione intorno alle 22.30 del 15.
Gli effetti dell’eruzione
Il bilancio dei danni fu aggravato dalla concomitanza di un ciclone tropicale che con le sue piogge torrenziali causò innumerevoli valanghe di fango (lahar), trascinando a valle le ceneri accumulate sui pendii del vulcano.
Questi fenomeni sono durati per molti anni e alla fine hanno costretto le autorità a costruire una diga per impedire il continuo seppellimento dei villaggi ai piedi del vulcano. Ancora oggi sono visibili sui fianchi del Pinatubo e nei villaggi le tracce e le lapidi a ricordo dei danni causati dai flussi di fango.
Gli studi petrologici hanno fornito l’evidenza che la riattivazione è stata causata dall’intrusione di nuovo magma basaltico all’interno di un serbatoio magmatico che si trovava ad una profondità fra i 7 e 12 km. Il mescolamento del magma basaltico con quello dacitico che si trovava nella camera magmatica ha prodotto un nuovo magma ibrido, con rinnovata capacità di movimento verso la superficie, dove ha dato forma al duomo sommitale. Le prime esplosioni hanno poi innescato la risalita del magma, sempre più abbondante, fino alla fase di massima violenza.
In uno studio fatto con Kathy Cashman e Steve Malone, abbiamo analizzato le modalità di sviluppo della fase esplosiva e identificato un processo di accelerazione nella risalita del magma fino alle fasi cataclismiche. Il sistema di flusso, sempre più efficiente, crea un condotto eruttivo diretto fra la camera magmatica e la superficie, che incrementa l’emissione di magma e una decompressione esplosiva del serbatoio.
Con il progredire dell’eruzione, il rapido drenaggio di magma e la diminuzione di pressione all’interno della camera magmatica, fino al collasso, sigillano di nuovo il serbatoio, impedendone il completo svuotamento. Un fenomeno simile era stato osservato durante l’eruzione del St Helens negli Stati Uniti nel 1980.
Bibliografia
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