45 anni fa, il St. Helens
a cura di Lisetta Giacomelli e Roberto Scandone
Il 20 marzo 1980, un vulcano tranquillo e poco conosciuto nel nord-ovest degli Stati Uniti, il Monte St. Helens, iniziava a dare segni di risveglio. Prima di allora, l’ultima eruzione sicura era avvenuta nell’aprile del 1857 e, forse, era stata seguita da episodi di minore violenza nel 1898, 1903 e 1921. Il monte si era ricoperto di foreste, ai piedi aveva fiumi, laghi e rifugi ed era diventato una frequentata meta turistica ed escursionistica.
Quel giorno di marzo 1980, un terremoto superficiale di magnitudo 4.1 scosse la regione, segnando l'inizio di una serie di eventi che avrebbero cambiato il volto del vulcano e dell’area circostante.
Figura 1. Il Mt St Helens prima dell’eruzione (public domain).
Figura 2. Il territorio ai piedi del Monte St Helens dopo l’eruzione del 1980 rimase cosparso di grossi blocchi (hummocks), derivanti dalla distruzione del cono (foto Giacomelli Scandone, 2010).
Il Monte St. Helens, così chiamato dall'esploratore inglese George Vancouver in onore dell’amico Alleyne FitzHerbert, primo barone di St Helens, è parte del Cascade Range, una lunga catena montuosa con oltre 20 vulcani che si allunga dalla British Columbia alla California. I nativi americani lo conoscevano come Loowit o Louwala-Clough, che significa "montagna fumante". L'ultima attività vulcanica della catena dei Cascades, registrata prima del 1980, risaliva al 1914, con l'eruzione del Lassen Peak in California.
Figura 3. L’area devastata dall’esplosione, vista dal cratere in direzione di Spirit Lake. Sullo sfondo Mount Ranier, un altro vulcano attivo delle Cascades (foto Giacomelli Scandone,2005).
Nel 1980, il Monte St. Helens era sorvegliato da un’unica stazione sismica, gestita dal Geophysics Program dell'Università di Seattle, e fu proprio questa stazione a localizzare il terremoto del 20 marzo. Il giorno dopo, vennero prontamente installate quattro nuove stazioni, sull’edificio vulcanico e intorno. Tre registravano i segnali per cinque giorni e i dati dovevano poi essere scaricati per effettuare le analisi, mentre una stazione inviava i dati in continuo al centro dell’Università di Seattle.
Nei giorni successivi, si registrarono diversi terremoti a bassa profondità. La situazione si aggravò quando avvenne un evento di magnitudo 4, seguito da un altro di magnitudo 4.7.
Figura 4. Le ceneri del 1980 alla base del vulcano (Foto Giacomelli, 2005).
Malgrado il maltempo che spesso nascondeva la cima del vulcano, si notarono diverse slavine, innescate dal tremore del suolo. Il 27 marzo, sul vertice della montagna, risaltò nella neve un buco circondato da cenere scura, primo segnale di una possibile evoluzione verso l’attività eruttiva. Le esplosioni che seguirono furono interpretate, in base alle analisi effettuate dai geologi dell'US Geological Survey (USGS), come fenomeni freatici, senza che in superficie fosse giunto nuovo magma.
Queste osservazioni, smentite alcuni anni dopo, suggerirono ad un famoso vulcanologo francese di escludere qualsiasi rischio di eruzione magmatica, così come era avvenuto alla Guadalupe alcuni anni prima.
Figura 5. Variazione dei parametri geofisici monitorati. A) episodi di tremore armonico, B) energia dei terremoti a bassa frequenza C) misure distanziometriche e angolari a punti fissi sul fianco nord (Scandone et al 2007).
A partire dal primo aprile, il cratere continuava ad espandersi e i sismometri localizzati sulla montagna registravano episodi di tremore armonico, tipici segnali di una massa di magma in movimento. Questa attività, accompagnata da terremoti a bassa frequenza, era determinata da fenomeni di degassamento magmatico sempre più vicini alla superficie. Tuttavia, dal 14 aprile, vi fu una diminuzione delle esplosioni e dei terremoti e un breve periodo di calma.
Il 23 aprile, con il ritorno del bel tempo, il vulcano apparve per intero e gli scienziati si resero conto che vi era uno spaventoso rigonfiamento del fianco nord, che cresceva rapidamente, con uno spostamento di alcuni metri al giorno. Si stabilirono misure distanziometriche e angolari per monitorare la deformazione. La minaccia di un'eruzione o di una frana catastrofica diventava sempre più probabile, ma si continuava a sperare che la sismicità potesse fornire un preavviso sufficiente.
Il 7 maggio, si registrarono nuovi episodi di tremore armonico. Nonostante una discreta diminuzione dell'attività eruttiva, il fianco nord continuava a deformarsi. Il Monte St. Helens, con il suo risveglio dalle prospettive così insolite, rappresentava una sfida per geologi e vulcanologi. Gli scienziati si trovavano di fronte a un difficile compito: prevedere se e quando si sarebbe verificata un'eruzione, e soprattutto come sarebbe stata, quale la sua violenza. Nonostante le esperienze fatte su altri vulcani, come Bezimianny e Sheveluk in Kamchatcka, gli esperti si trovavano ad affrontare una situazione incerta e più imprevedibile del solito.
Improvvisamente, il 18 maggio 1980, alle ore 8:32, il vulcano esplose. L’evento fu catastrofico, uno dei più devastanti mai avvenuti negli Stati Uniti, una pietra miliare per la vulcanologia e per la storia di un vasto territorio. Nello stesso tempo, mise in evidenza la necessità di un costante e attento monitoraggio delle aree vulcaniche, specie di quelle quiescenti.
Figura 6. Le acque dello Spirit Lake venticinque anni dopo l’eruzione (foto Giacomelli Scandone, 2005).
Quella mattina, un terremoto di magnitudo 5.1 provocò il distacco del versante che si era dilatato, coinvolgendo anche parte della cima del vulcano. Dalla scarpata della frana e dal cratere sommitale si formarono due colonne di cenere alte circa 200 metri. La frana si riversò nella valle del North Fork Toutle River, intasandola di materiale vulcanico e di giganteschi blocchi derivanti dalla distruzione del cono stesso.
Figura 7. Il Monte St Helens con l’area devastata ancora coperta di cenere. Sullo sfondo il Mount Adams (foto Giacomelli, 2003).
La repentina rimozione di così tanto volume dal fianco dell’edificio vulcanico innescò la depressurizzazione del sistema magmatico, come se si fosse aperta improvvisamente una pentola a pressione.
Figura 8. Seconda fase dell’eruzione del 18 maggio con la colonna eruttiva e i flussi piroclastici (foto Rosenbaum, public domain).
Un'immediata espulsione di gas e magma scaturì dal fianco e dalla parte superiore del cono. In pochi minuti, all’esplosione laterale fece seguito una colonna di cenere che si innalzò fino a 24 km di altezza e che rimase verticale sopra il cratere per nove ore, con picchi di violenza tra le ore 15 e le 17.
Figura 9. La dimensione degli alberi abbattuti dall’esplosione direzionale e le colline (hummoks) di detrito vulcanico (foto Scandone, 2010).
L'esplosione laterale fu l'evento più distruttivo. Entro 10 km dal vulcano, non rimase in piedi un solo albero della fitta foresta secolare. Il raggio di distruzione si estese fino a 30 km a ovest e 20 km a nord, riducendo 600 km² di territorio boschivo a una distesa grigia di cenere. I flussi causati dallo scioglimento della neve, si gonfiarono di cenere e detriti, travolgendo case, strade e ponti, per poi riversarsi nel Cowlitz River.
Figura 10. Uno dei corsi d’acqua che scende dal vulcano solcando le ceneri del 1980 (foto Giacomelli Scandone, 2005).
Si contarono 55 vittime fra quanti si trovavano all’interno dell’area interdetta. Le conseguenze economiche furono pesanti, in particolare per le aziende di produzione di legname e per il patrimonio boschivo.
Figura 11. Un’immagine dell’area con la foresta devastata dall’esplosione del 1980 (Foto Giacomelli Scandone, 2005).
La compagnia che gestiva il taglio del legname rifiutò di evacuare i propri dipendenti nei giorni precedenti, ma fortunatamente, l'eruzione avvenne di sabato, risparmiando diverse vite per puro caso. Furono distrutte 3 aree attrezzate, travolti 22 autobus, 30 camion e 39 vagoni ferroviari, così come ponti e strade cruciali per il commercio. Le acque dello Spirit Lake sono ancora oggi in parte coperte di tronchi galleggianti strappati dalla montagna.
Figura 12. Lo Spirit Lake ancora coperto di tronchi abbattuti dall’esplosione direzionale e sullo sfondo il St Helens con l’anfiteatro a ferro di cavallo creato dall’esplosione (foto Giacomelli Scandone, 2005).
Un testimone chiave della spaventosa esplosione fu Gary Rosenquist, un taxista di Tacoma, che, insieme alla famiglia, cercava un posto per campeggiare. Le sue foto, scattate da Bear Meadow, divennero famose e rappresentano ancora oggi un importante documento dell'eruzione. Rosenquist e la sua famiglia riuscirono a scappare in tempo, mentre altri, come il geologo David Alexander Johnston, che monitorava l’evoluzione dell’eruzione da un punto ritenuto sicuro e Harry Truman che si rifiutò di abbandonare il proprio rifugio, furono meno fortunati e rimasero travolti dall'esplosione. Anche il fotografo Reid Blackburn perse la vita, chiuso nella sua auto. Le immagini che aveva scattato furono recuperate anni dopo.
Figura 13. Lo spessore delle ceneri visibile sulla riva del fiume che scende dal vulcano (foto Giacomelli, 2010).
L'eruzione produsse nel vulcano un profondo squarcio, aperto ad anfiteatro verso nord, una struttura che ha permesso di interpretare la morfologia e la storia eruttiva di diversi altri vulcani. Dal giugno 1980, all'interno del cratere iniziò a formarsi un duomo di lava, che venne distrutto più volte da episodi esplosivi. La crescita del duomo divenne costante fino al 1986 e con il tempo si formò un ghiacciaio tra il duomo e le pareti del cratere.
Figura 14. Il duomo cresciuto fra il 2004 e 2008 sovrapposto a quello cresciuto dal 1980 al 1986. Ai bordi il ghiacciaio riformatosi a ridosso del duomo (foto Giacomelli Scandone, 2005).
Nel 2004, intorno a un nuovo duomo lavico, il ghiacciaio assunse una forma a ferro di cavallo. Dal gennaio 2008, la crescita del duomo si è arrestata e il ghiacciaio si è esteso.
Figura 15. La sovrapposizione dei duomi lavici. Si nota la caratteristica struttura liscia dell’estrusione, circondata da detrito. Intorno, su entrambi i lati, si vedono le lingue glaciali coperte di cenere (foto, Giacomelli Scandone, 2005).
Nelle valutazioni successive all’eruzione, ci si rese conto che la risalita di magma all’interno del cono era stata ostacolata dalla presenza di un duomo sommitale che ne aveva deviato il tragitto lateralmente, verso il fianco nord; il collasso del fianco aveva depressurizzato il sistema, causando l’esplosione direzionale; questa, a sua volta, aveva facilitato la risalita rapida del magma da un serbatoio che si era formato a 8 km di profondità. Il collasso della camera magmatica fu evidenziato da uno sciame di terremoti localizzati a quella profondità e registrati nelle fasi finali dell’eruzione. Il collasso, avvenuto per lo svuotamento rapido del serbatoio magmatico e i terremoti posero termine alle fasi più violente. La presenza del duomo sommitale aveva impedito che l’eruzione avvenisse con modalità più moderate e fu la causa di una catena di eventi che sfociarono nel disastroso cataclisma.
Figura 16. Distribuzione in profondità dei terremoti durante l’eruzione del 18 maggio (Scandone e Acocella, 2007).
Figura 17. La distribuzione spaziale dei terremoti attorno alla camera magmatica (Scandone e Acocella, 2007).
Oggi il vulcano sembra essere tornato in una fase di completo riposo, ma l'eruzione del 1980, con la sua atipica evoluzione, rimane un monito di quanto possa essere imprevedibile e distruttiva la natura e di quanto sia necessaria la sorveglianza vulcanologica e la prudenza quando i segnali sono di difficile definizione.
Figura 18. In volo verso il St Helens con Dan Miller nel 2005 (Foto Giacomelli).
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